Se noi per primi soffriamo di oicofobia, cioè di un’avversione per la nostra casa e per il nostro retaggio storico-culturale, quelli che si fanno esplodere in nome di un ideale, hanno già vinto.
Se volessimo prendere in prestito il titolo di una canzone, modificandolo appena, potremmo dire Friday bloody Friday, sì. Proprio di questo si è trattato venerdì scorso a Parigi, dove l’Isis avrebbe agito su preciso ordine del Califfo Al- Baghdadi, che aveva intimato di colpire i Paesi impegnati nei bombardamenti in Iraq e Siria. Secondo altre fonti, l’Isis avrebbe creato al proprio interno un’unità dedicata esclusivamente alla pianificazione e realizzazione di attentati in Europa occidentale e Stati Uniti. Ma il punto non è questo, o meglio, non soltanto questo. Perché alla luce dei fatti, si può facilmente intuire che, quel più volte sbandierato dialogo interculturale, (se ancora se ne può parlare) è una grande cazzata: nella realtà, oltre le parole non esiste. Esistono le stragi e le morti gratuite. Almeno su vasta scala.
Esiste un bilancio di vittime, questa volta ancora più alto rispetto a quello di Charlie Hebdo. La domanda è: “Cosa non sta funzionando?”. Molto probabilmente non funziona il modo con cui, noi occidentali, abbiamo guardato a questi fanatici della religione e, perciò, ci siamo trovati impreparati di fronte a tecniche terroristiche mediorientali, sofisticate per la simultaneità degli attacchi e l’uso dei kamikaze. Poi forse non abbiamo capito o non abbiamo voluto vedere il valore fortemente simbolico di questa guerriglia urbana, perché quelli che sparano al grido di Allah Akbar, hanno attaccato lo stadio durante una partita, alla presenza di uno sgomento Hollande, hanno fatto irruzione al Bataclan, dove si stava esibendo un gruppo americano davanti ad un pubblico cosmopolita, cioè volevano mostrare il loro potere davanti a tutto l’Occidente e ai suoi eventuali turisti.
Situazioni come queste mostrano, purtroppo, l’inadeguatezza del mondo occidentale verso la sfida lanciata dall’Isis e un dettaglio importante può confermarcelo. Già tempo fa, saranno stati i primi di ottobre, l’Intelligence di Parigi aveva dichiarato di temere un 11 settembre francese. Ma quel timore non è servito a prevedere né dove né come gli integralisti avrebbero posato la loro longa manus. L’attuale Califfato è nettamente più pericoloso rispetto all’Al Qaida di Bin Laden, che si limitava ad attacchi sporadici fuori dai confini dell’Afghanistan. L’Isis, invece, è un potente magnete per esaltati e disperati, che forse vogliono trovare un senso proprio nell’assurdità di certi gesti di morte. Ora più che mai, credo convenga riflettere sul peso di quella “cultura della resa”, che ci portiamo sulle spalle da tempo. Il che non è da intendersi in termini bellici, quanto piuttosto morali e culturali. Facciamo alcuni esempi per capire di che si tratta.
Qualche giorno fa, si espone a Firenze la “Crocifissione Bianca” di Chagall, un quadro di una bellezza disarmante, toccante. Ben presto, la scuola elementare Matteotti blocca la visita alla mostra per non offendere le famiglie islamiche. Ma intanto, il ministero dei Beni culturali offre il suo patrocinio per una mostra a Lucca, nella quale risalta per estrosità (e non solo per quello), il “Piss Christ”, Cristo di piscio, precisamente un crocifisso immerso nell’urina dell’autore. Cose del genere, sembrano proprio incoraggiare chi ci vuole morti, distruggendo i nostri simboli e le nostre tradizioni. Il fatto non è una semplice difesa religiosa, ma riguarda la difesa di un’identità, che si costruisce sui simboli. Se noi per primi li mandiamo a farsi benedire e ce ne freghiamo, sarò ancora più semplice per i nostri nemici vincere.
Se noi per primi soffriamo di oicofobia, cioè di un’avversione per la nostra casa e per il nostro retaggio storico-culturale, quelli che si fanno esplodere in nome di un ideale, hanno già vinto. Perché hanno dalla loro la forza della convinzione. Se ubbidiamo quando ci dicono di togliere dai muri i crocifissi perché offendiamo qualcuno, dove è andata a finire la nostra radice identitaria? E’ da qui che dobbiamo ripartire, dall’amore per il nostro dna culturale, con uno sguardo rivolto alla vita che, nonostante tutto, può e deve vincere.